La filiera come verità: criticità e prospettive del bilancio di sostenibilità nelle PMI italiane
- RUO
- 9 mag
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Nel dibattito pubblico e istituzionale sulla sostenibilità d’impresa, si è progressivamente consolidata una retorica che pone il Bilancio di Sostenibilità (BdS) al centro di una strategia reputazionale, più che come strumento reale di governance. Questa distorsione, figlia anche di una normativa europea ipertrofica e percepita come eccessivamente tecnica, ha generato un paradosso: la rendicontazione ESG è sempre più diffusa fra le grandi imprese, ma perde di senso, efficacia e fiducia presso le PMI e – fatto ancor più grave – presso i cittadini e i consumatori. La ricerca “La controriforma della sostenibilità”, che alimenta i lavori del V Campus Future Respect, fotografa con lucidità questo cortocircuito. Su un campione di 3.814 aziende, solo l’1,1% delle piccole imprese e l’11,4% delle medie pubblica un bilancio di sostenibilità. E fra queste, oltre un terzo non è soddisfatto dei risultati ottenuti, mentre il 56% dichiara di averlo redatto più per motivi comunicativi che per reale convinzione strategica. Si conferma così un approccio prevalentemente formale, in cui la rendicontazione non è frutto di una visione olistica dell’impresa, ma una risposta frammentaria a pressioni esterne – regolatorie o commerciali – cui si aderisce per obbligo, non per cultura. Il nodo centrale è la filiera: ovvero quell’insieme di connessioni, scambi, responsabilità condivise che costituiscono il vero cuore etico della sostenibilità. Una PMI può anche non avere un reparto ESG o un comitato interno, ma certamente ha rapporti quotidiani con fornitori, clienti, enti locali, dipendenti, che costituiscono la sua impronta reale sul territorio. Eppure, nei BdS esistenti, la filiera è spesso ignorata o trattata in modo superficiale, ridotta a voce marginale tra indicatori standardizzati e formule vaghe. Questo è un errore concettuale e comunicativo. Il bilancio di sostenibilità dovrebbe, al contrario, partire dalla filiera: da ciò che lega l’impresa al contesto e da come questa interconnessione incide sui comportamenti. Le imprese partecipanti al panel che ho avuto il privilegio di moderare lo hanno dimostrato. Felsineo, con la scelta di diventare società benefit, racconta come una visione valoriale possa tradursi in una governance più responsabile delle filiere agroalimentari. Corapack si confronta con i limiti tecnici e normativi dei materiali biodegradabili, ma cerca soluzioni condivise con i suoi fornitori. City Green Light integra sostenibilità ambientale, innovazione digitale e inclusione sociale in un modello che si sviluppa solo se il territorio lo accetta e lo sostiene. Ferraroni, infine, è un esempio raro di filiera totalmente integrata, che unisce produzione, trasformazione, allevamento e formazione in una logica di economia circolare e coesione intergenerazionale. Queste esperienze, pur molto diverse, hanno un tratto comune: la consapevolezza che la sostenibilità non è né una moda, né una formula, né una sigla da delegare al marketing. È piuttosto una postura operativa e culturale, che si costruisce nel tempo e si verifica nella coerenza tra missione e metodo. I BdS dovrebbero raccontare questo percorso, non limitarsi a registrare dati. È qui che il diritto può – e deve – intervenire: non moltiplicando i vincoli, ma semplificando i percorsi, offrendo modelli flessibili e accessibili, ma rigorosi, proporzionati alle dimensioni aziendali e centrati sulla materialità. È necessario che le istituzioni riconoscano che una rendicontazione credibile si misura non con la quantità degli indicatori, ma con la trasparenza della catena del valore. Se la sostenibilità è relazione, allora il bilancio deve rappresentare questa rete. In assenza di ciò, il rischio è duplice: da un lato, il proliferare di documenti autoreferenziali e incomprensibili; dall’altro, il rigetto da parte di consumatori sempre più disillusi. È tempo, dunque, di riportare il Bilancio di Sostenibilità al suo significato originario: rendere conto a chi ci dà fiducia, non a chi ci controlla. In questo senso, le filiere non sono un elemento accessorio, ma il vero criterio di verità. Chi saprà valorizzarle, con intelligenza narrativa e coerenza operativa, avrà una chance di futuro; gli altri continueranno a riempire report che nessuno legge, e che nessuno crede.
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